
Ho seguito con attenzione l’evolversi della decisione da parte di Twitter, e degli altri social network, di oscurare i profili di Donald Trump, allo stesso modo ho seguito anche il dibattito dell’opinione pubblica e devo ammettere che rimango sempre di più esterrefatto nel constatare che chi si professa democratico abbia allo stesso tempo esultato per la decisione intrapresa dalle multinazionali del web. Qualcuno ha addirittura invocato che ciò accada anche in Italia. I social sono diventati la vetrina della realtà, una sorta di diretta dal mondo attiva 24 ore su 24 in cui la parola d’ordine è “far sapere”. Far sapere cosa succede, dove ci si trova, con chi si è ma, soprattutto, far sapere cosa si pensa. E il punto cruciale è proprio questo: chi può stabilire cosa è giusto pensare e condividere e cosa invece no?
Il metodo delle fake news
Pensiamo al concetto di fake news, il mezzo usato più volte dagli algoritmi dei social network per cancellare un post o un link condiviso, e chiediamoci: possono aziende private arrogarsi dei diritti di regolazione che pertengono agli Stati o comunque a istituzioni “terze” democraticamente legittimate? Se si legittima la censura nei confronti di Trump, chi ci dice che lo stesso metodo non venga applicato con soggetti diversi? Questo è un problema che interessa il singolo cittadino, ed è un problema del nostro presente e lo sarà ancor di più nel nostro futuro. Tant’è che perfino l’Europa è intervenuta, affermando che <<La regolazione dei giganti del web non può essere fatta dall’oligarchia digitale stessa>>. Perché è chiaro che chi decide di censurare nel nome della democrazia, non è difensore ma censore. Riflettiamo, tutti, nel nome e nel valore della nostra libertà.